Giuseppe Cantù
Scultore e medaglista (1864-1916)
A sinistra, copertina e pagine 280-281 del volume “Milano Illustrata” a cura di Ernesto Marini, 1903
GIUSEPPE CANTÙ
Bastioni Magenta, N.14. – Nacque a Milano nel 1864; troncati gli studi liceali per quelli artistici, frequentò poco tempo l’Accademia di Brera e praticò poscia lo studio dello scultore Rosso Medardo. Espose a Brera nel 1886 una Testa di popolana, e poco tempo appresso modellò il busto di Oberdan per il Circolo Garibaldi di Milano. Col mezzo dell’arte volle toccare i problemi economici e nel 1891 esponeva alla prima Triennale di Milano la Questione sociale, un tipo di operaio che arringa i compagni. Alla seconda Triennale del 1894, espose I Vinti e I Divisi, e poscia, nel 1897, Gli Orfani, che fu in predicato per il Premio Tantardini. Alle Esposizioni seguenti si notarono del Cantù una testa in bronzo di donna, intitolata Temporale, ed un bozzetto, pure in bronzo, Ancora uno sguardo. E’ autore di parecchi Monumenti funerari per Monza, Varese e Rivolta d’Adda. Tratta il ritratto, ed oltre al busto di Oberdan già menzionato, eseguì una Lapide con ritratto a Cappelli per Milano, e un Medaglione di Cavallotti per Cilavegna. Si dedica con particolare amore alla trattazione di piccoli soggettini, e i suoi gruppetti, Il difensore, C’era una volta, ed altri, furono ammirati al Salon di Parigi, a Monaco, a Pietroburgo. Appassionato nuotatore e canottiere, non trascurò l’arte delle Medaglie sportive e si ricordano quelle per i Rari Nantes d’Italia, per la Gazzetta dello Sport, per i Tiratori Lombardi, per i Canottieri Olona, per i Ludi Sportivi del Secolo XX, destinata alle manifestazioni sportive del 1901, e una Coppa Rari Nantes Alta Italia.
Ernesto Marini, “Milano Illustrata”, 1903
LO SCULTORE GIUSEPPE CANTÙ ANNEGATO NEL TICINO
Novara, 3 settembre, notte
Una grave sciagura ha funestato e fatto sospendere le gare di nuoto che dovevano svolgersi oggi nella vicina località di Ponte Ticino. Lo scultore Giuseppe Cantù, milanese, presidente della Rari Nantes della vostra città, il quale aveva indetto le gare in unione ai Canottieri di Novara, volle insieme con altro amico milanese provare il campo acqueo nel quale dovevano svolgersi le gare, partendo dalla riva sinistra, a valle del ponte in ferro. Ma mentre l’amico raggiungeva regolarmente la riva destra, il Cantù non fu più visto e vana riuscì l’attesa ansiosa del superstite. Malgrado fosse, come è noto, provetto nuotatore, Cantù era scomparso, forse travolto dalla corrente, in quei punto vorticosa. Le assidue ricerche fatte poi sono riuscite inutili: esse però continuano alacremente. Lo scultore Giuseppe Cantù era notissimo a Milano, di cui costituiva una caratteristica e simpatica macchietta. Chi non lo ricorda col suo cappellaccio, coi suoi capelli a ciuffo, il suo nero pizzo, la sua cravatta svolazzante e i suoi calzoni a grandi quadri?. Era ancor giovane, o straordinariamente robusto, e quantunque ricordasse nel costume e negli atteggiamenti gli artisti della bohème meneghina, conduceva una vita ordinata e metodica di saggio borghese. Dotato di qualche fortuna, non aveva dovuto e non doveva lottare perché l’arte potesse dargli da vivere. Non era neppure un artista cercatore o uno spirito irrequieto: faceva della scultura quasi per diletto, perché essa era stato il sogno e lo scopo della sua giovinezza, perché essa gli aveva procurato le prime soddisfazioni e le più antiche amicizie. Era nato a Milano nel 1864; troncati gli studi liceali per quelli artistici, frequentò poco l’Accademia di Brera e praticò poscia io studio dello scultore Medardo Rosso. Aveva fatto delle cose graziose, delle impressioni sincere, le quali dimostravano che avrebbe, volendolo, potuto fare assai di più. Ma la politica prima, lo sport poi avevano frastornato il suo spirito. Nella sua giovinezza era stato repubblicano ardente, né vi era dimostrazione in cui il cappellaccio, la cravatta rossa e il randello di Giuseppe Cantù, non figurassero in prima linea, tanto terribili all’aspetto, quanto innocui in realtà. Poiché questo scultore, se aveva l’anima pronta agli entusiasmi, era un gran fanciullone, pieno di cordialità fraterna. Nessuno a Milano trattava col tu un maggior numero di persone di quante non trattasse lui. Lo sport del nuoto lo distolse dalla politica. Era uno sport nuovo, di cui egli fu campione prima e apostolo poi. I Rari Nantes, questa organizzazione ormai nazionale, colle sue gare, i suoi cimenti invernali devono moltissimo a lui, alla sua fede, alla sua costanza. In pieno gennaio, anche se le rive, del Naviglio erano coperte di neve, egli scendeva nell’acqua diacciata, esempio e sprone ai suoi giovani allievi. Lo sport gli fece dimenticare poi, col tempo, anche un po’ la scultura. Gli artisti parlando di lui, della sua passione per il nuoto, lo qualificavano, usando di una felice definizione di Luigi Conconi, uno scultore d’acqua. E della definizione Cantù rideva. La tragica fine del povero artista, desterà rincrescimento vivo in quanti – ed erano tanti a Milano – ne conoscevano la bontà e la modestia.
Da Corriere della Sera, 4 settembre 1916
“… SEMBRAVA NATO DALLE ACQUE E NELLE ACQUE EGLI È RITORNATO…”
Sembrava nato dalle acque e alle acque doveva ritornare. Come i geni buoni della favola viveva una vita solitaria, meditabondo· tra la famigliola, lo studio da scultore, le peregrinazioni quotidiane sull’agile sandolino o a nuoto, sport nel quale era eccellentissimo.
Statura media, grossa testa saldamente portata da spalle poderose: dorso, braccia, gambe da atleta; faccia maschia inquadrata fra capelli e barba prolissi d’un bel nero carbone. Un gran cappello di feltro, una lunga e larga giacca che stava fra la tunica del pittore e la divisa del ginnasta, pantaloni larghi alla brettone, mani e piedi piccolissimi. Anima dolcissima soffusa d’entusiasmi, anima di fanciullo nell’involucro di un leone. Mente immaginosa incapace di esternare colla verbalità le bellezze che sapeva vedere e comprendere. Timido sino a rendere imprecisa, balbuziente la sua parola: coraggioso, come l’uomo onesto e forte, prodigo di sé stesso come un apostolo. Ecco Giuseppe Cantù. A Milano, in tutta l’Italia sportiva era popolarissimo. Lo chiamavano il “Garibaldi del nuoto” e lui si compiaceva, si compiaceva bonariamente come le anime gentili, sorridendo alla comparazione gloriosa senza insuperbire, intimamente convinto che essa fosse dovuta non all’uomo ma alla sua passione per lo sport, al suo gesto di patriota ardente, di apostolo dell’idea che aveva vestito la giubbarossa per accorrere in difesa di una Grecia degenere, vergognosamente in fuga a Domokos. Il ricordo garibaldino lo animava, la pagina italiana era bella, nobilissima. La rossa legione italiana, sola, aveva sostenuto l’urto travolgente dell’esercito della mezzaluna mentre laggiù, verso le terre radiose di tanta bellezza storica i pronipoti degli eroi delle Termopili e di Maratona fuggivano pietosamente. Ma non sapeva imprecare, non sapeva maledire neanche i vili. Compiangeva tristamente dolorando sulla bassezza ultima di un popolo. Come scultore l’anima sua si trasfigurava. L’uomo mite, dolcissimo assurgeva a difensore veemente dell’umanità oppressa. Devoto ammiratore di Emile Zola aveva espresso, nell’inerzia del marmo, con bella forza d’arte, l’energia degli eroi del pensiero e, come sapeva cogliere il gesto dei grandi altruisti così sapeva attingere, nell’espressione degli umili le stimmate umane delle vittime. Gli avariati della vita· trovarono nel suo scalpello un grande apostolo di carità che sapeva far meditare e studiare le formule necessarie ad una rinascenza anatomica. Forte, robusto, poderoso immaginava monumenti grandiosi, ribellioni concettose mentre le sue piccole mani si compiacevano nel modellare cose gentili, graziosissime. Repubblicano sincero foggiava le armi delle sue rivoluzioni nel marmo e come Cristo s’inteneriva d’innanzi ai deboli ed ai fanciulli. Più che la sua azione, che non fu mai ribelle, il cappello brigantesco e la sua cravatta rossa, nel 1898 gli valsero un mese di prigione, prigione che lo rendeva fiero perché l’aveva accomunato a nobili pensatori, ma della quale non sapeva rendersi una ragione perché all’infuori del cappello e della cravatta rossa, non vedeva un motivo pel suo arresto. Come artista la sua passione pel nuoto è tutta estrinsecata in una minuscola statuetta rappresentante un piccolo “rari nantes”. Un ragazzotto ha saltato le lezioni della scuola per vestire la brevissima maglietta del “r.n.” e siede sopra uno scoglio in atteggiamento di riposo. Tutte le belle linee infantili molleggiano come stanche per la fatica recente mentre l’occhio birichino sembra rincorrere la visione di qualche nuova monelleria. La statuetta ebbe un grande successo all Esposizione di belle arti di Parigi e diventò challenge preziosa per una grande competizione annuale di nuoto creata dalla “Gazzetta dello Sport”. Da quel giorno Giuseppe Cantù firmò sempre opere d’arte e scritti col suo nome seguito dalla sigla “r. n.”. In quelle due lettere vedeva accomunate la sua passione per l’arte e per lo sport. Per accennare, anche brevemente, alla sua opera di propagandista del nuoto occorre risalire qualche lustro. La sua figura di apostolo balza dal passato originale,viva, indimenticabile.
Eravamo ai primi accenni della fondazione dei “rari nantes”. Ogni amico, ogmi persona presentata, ogni ragazzo rappresentavano una vittima. Colla sua voce dolce, col gesto largo che suppliva la parola spesso mancante, il buon Cantù esaltava i benefici del suo sport prediletto, l’azione umanitaria, il gesto glorioso che salva una vita. Gli accoliti accorrevano, i discepoli diventavano numerosi. Cantù si prodigava con tutti. Spendeva anima, fatiche, denaro. I modesti suoi guadagni andavano divisi fra una vita parca da eroe plutarchiano e generosi aiuti ai giovinetti che non potevano o non volevano pagare i cinquanta centesimi mensili necessari per essere soci della sezione. Cinquanta centesimi che dovevano servire a tenere in piedi una baracca di legno, prima sede della “r. n” lombarda presso il naviglio nelle vicinanze di Corsico. E come s’affermava! Nelle lunghe serate estive, dopo il bagno quotidiano, trapiantava la sua sede di incoraggiamento e propaganda in un caffè di Piazza Genova e attendeva il passaggio degli operai che ritornavano dal lavoro. Conosceva e chiamava per nome tutti gli associati. Rimproverava i soci morosi che profondevano- diceva lui – le quote destinate alla società in tanto “Bari” e “Barletta”: compiangeva quelli che sapevano accampare scuse giustificabili e che sapevano ingannarlo e rifondeva la cassa sociale col suo, colle poche lire rubate al vitto, allo studio, al suo vestito. Giuseppe Cantù è stato un vero sportsman, un bravo scultore; ma era nato per essere un grande apostolo e come grande apostolo doveva morire in quelle acque che lo attraevano come una sirena. Una sua simpatica debolezza era il dire che egli era figlio del fiume …” Guardate – diceva – a voi sembrerà una cosa trascurabile; per me, invece, è un indizio preciso, indiscutibile. Le mie mani sono leggermente anserine, come quelle che fra le dita hanno legamenti abbastanza pronunziati, rassomiglianti a quelli dei palmipedi. E allargava la bella mano pallida, un poco villosa, compiacendosi dello stupore destato dall’osservazione. Mentre nella propaganda sportiva era bonario, mite, convincente, nella direzione delle gare diventava invece militare. Vestito da canottiere della società “La Milano” che lo ebbe più volte campione della pagaia, egli radunava i concorrenti con larghi gesti poi – in buon meneghino – faceva loro un predicozzo, morale, sulla condotta che ogni buon “r. n.” deve tenere in gara e, per ultimo, con un grido ed un gesto di battaglia dava il via. Era una macchietta deliziosa, uno sportsman innamorato, un artista sincero e non è più. Un tragico destino ha voluto che le acque che egli seppe tanto amare lo accogliessero eternamente. Invano le acque del naviglio correranno ancora cantando le canzoni tenuissime dei baci fuggenti alle morbide rive erbose; invano i grandi barconi scenderanno verso l’urbe apportando i marmi per la gran fabbrica del Duomo, marmi che egli, dall’agile sandolino seguendo la scia dei trasporti, modellava con gli occhi creando, nella sua fantasia, nuovi fastigi di bellezza al meraviglioso monumento lombardo. Invano nuove folle di canottieri, di nuotatori si tufferanno nelle acque lente occhieggianti il cielo con lo sguardo di un’opera di specchio antico: invano gli amici innumerevoli cercheranno la bella, la nobile figura del genio delle acque… Giuseppe Cantù è spento tragicamente. Una vedova, una bambina, una sorella insieme a tutte le anime oneste e buone piangono la sua perdita immatura. Giuseppe Cantù sembrava nato dalle acque e alle acque doveva ritornare. Se la virtù pensante del nostro essere permane, amico carissimo, ricordati che tu non potrai essere dimenticato, e che soprattutto con cordoglio immenso e con lutto indistruttibile ti piange il tuo
Magno
S. Michele di Mondovì, Settembre 1916
Con il soprannome Magno si firmava Eugenio Camillo Costamagna (San Michele di Mondovì 1864 – Milano 1918), fondatore e direttore della Gazzetta dello Sport nata nel 1896, e ideatore del Primo Giro d’Italia che partì il 13 Maggio 1909 da piazzale Loreto a Milano. Fu proprio Cantù a dare il “via” alla manifestazione che vide impegnati 127 ciclisti.
Giuseppe Cantù mentre modella il busto di Verdi eretto in Busseto nel centenario della nascita del grande musicista (1913). Tutto intorno sono bozzetti e statuette, e fra questi quel magnifico “Piccolo nuotatore” in atteggiamento di riposo, che per vari anni fu una challenge della Gazzetta dello Sport in una classica gara di nuoto. Nel medaglione: un recente ritratto di Cantù.
… E CANTÙ TELEGRAFÒ A GIOLITTI COSÍ…
«Un giorno lo trovai a Stresa, al Congresso Della R.N. Veniva d’aver attraversato il lago Maggiore. A nuoto, s’intende. E vestito completamente.
Fu così: passeggiava per la via che costeggia il bel lago in cui s’imperla il cielo lombardo, quando volle dimostrare a qualche amico l ‘antica potenzialità natatoria del «pioniere del nuoto» . Non perdette tempo a svestirsi. Si gettò in acqua. Raggiunse l’altra riva, Lo trovai dunque a Stresa, al congresso: seduto al tavolo presidenziale col gran viso tranquillo di Buddha barbuto, e sorrideva discutendo sulle sorti del nuoto italiano.
“Si sa : il nuoto è un po’ la cenerentola degli sports nostri”.
Cantù, se non fosse stato scultore e nuotatore sarebbe stato filosofo con uguale successo.
Dopo due giorni di bella e battagliata discussione al Congresso, Cantù chiamò, vicino Franco Scarioni, l’amico dagli ardenti entusiasmi, e me e a bassa voce, disse:
– Sentite: sarebbe bene telegrafare all’On. Giolitti.
– E perché?…
– Per salvare il nuoto, diamine.
– Come, scusa? …
– Diamine, lui che sta cosi bene a galla troverà qualche rimedio ….
E rise con quel suo suono bizzarro d’ilarità che ricorda lo strappo del raso.
E cosi fu fatto. Quella sera stessa le signorine del telegrafo di Stresa, stupefatte e inorridite, ricevevano un nostro telegramma indirizzato a Giovanni Giolitti. “I nuotatori d’Italia riuniti in Congresso a Stresa, attendono aiuto dall’uomo politico che meglio sa mantenersi a galla”
Naturalmente il telegramma non ebbe risposta
Nino Salvaneschi, “Lo Sport Illustrato e la guerra”, 15 Settembre 1916
RICORDO DELLO SCULTORE GIUSEPPE CANTÙ
Giuseppe Cantù era nato a Casorate Primo (PV), oltre Binasco, nel 1864. Fece dello sport fino dalla sua giovinezza. Vigoroso di corpo, aitante e robusto, sensibile alle idee che già si facevano violentemente largo nel campo del misoneismo nazionale nei riguardo degli esercizi fisici, il futuro pioniere antepose subito la coltura del corpo e quella dello spirito. Poi si pose a studiare la scultura, nella quale si formò uno stile originale discusso ma nuovo e soprattutto ardito. Dopo il Liceo frequentò con assiduità lo studio di Medardo Rosso. Lavorò assai, in arte: ed il suo primo lavoro fu “La questione sociale”, pregevole scultura che meritò le lodi di Emile Zola. Fu un eccellente impressionista; ma in particolare modo egli si dedicò alla medaglia, agli altorilievi ed alle stele funerarie, tra le quali assai degna di ricordo quella per Giuseppe Verdi a Busseto. Compose innumerevoli figurettine, fra cui celebre quella del “Piccolo nuotatore” e la medaglia della “Gazzetta dello Sport”, pregevole minuscola opera ammirata assai ancora oggi. Politicamente militò nelle file del repubblicanesimo puro ed amò sempre di dimostrarsi burbero e rozzo anche nel tratto. Fu uno sportivo fervente ed appassionato non solamente col pensiero, ma anche in pratica. Dapprima coltivò con passione il canottaggio. Fondatore della Canottieri Milano vinse fra l’altro un campionato italiano in “perissoire” nelle epoche lontane del torinese Vaudano e del piacentino Papi, Scemata lievemente, in seguito, la passione per il remo si consacrò al nuoto, fondando la Federazione Rari Nanates insieme a Santoni Achille, Mainoni ed a Negri. Nuotatore egli stesso resistentissimo, per quanto non veloce, stava come suol dirsi “bene in acqua”; si aggiudicò un record nel Naviglio Grande su trentasei chilometri, compì, interamente vestito, la traversata del Verbano da Arona ad Angera, e fu un audace ed antico pioniere nel vero senso della parola. Fu infine socio fondatore della bizzarra istituzione dei Bef, composta da tredici soci amanti dell’escursionismo acquatico sui fiumi allo scopo di caccia e divertimento, tutti abbigliati stranamente e da veri “Bohemmiens”. Cantù fece anche del giornalismo sportivo e fu anche redattore della Gazzetta dello Sport. Il tre settembre del 1916 volle esplorare prima di Davoglio Roberto, il tratto del Ticino a sud di Novara, al ponte Ticino, per trovare il luogo adatto per una gara di traversata. E da questo punto la tragedia incomincia e finisce orridamente misteriosa: dopo un breve tratto di nuoto il povero Cantù scomparve d’improvviso. Fu travolto? Fu vittima della stanchezza, o di un aneurisma o di urto in qualche ostacolo? Nessuno ha mai più saputo nulla: solo tre giorni dopo, a Galliate (NO), le sue povere spoglie mortali furono restituite dalle acque.
Da Gazzetta dello Sport, settembre 1916, in occasione della morte di Cantù
Fotografia di Giuseppe Cantù datata 1904
L’EFFIGE DI GUGLIELMO OBERDAN
Un busto di gesso, in grandezza naturale, opera dello scultore milanese Giuseppe Cantù, morto il 9 ottobre 1916 (3 settembre 1916), condotta di sulle fotografie che circolavano di Guglielmo Oberdan e in particolare forse del primo ritratto viennese del 1878, fu offerto, si dice, dall’artista al Circolo Garibaldi di Milano e, come mi comunica gentilmente Garibaldi Apollonio, l’autore del noto opuscolo pubblicato nel XXV anniversario del sacrificio, era collocato nella sede dell’Associazione Patria pro Trieste e Trento da gran tempo, forse dall’epoca dell’istituzione della società o in qualche solennità commemorativa. Sciolto il sodalizio dopo la guerra, il busto fu donato dai soci superstiti, insieme ad altri cimeli, alla Dante Alighieri di Milano, dove esso viene gelosamente custodito ed adorna la sala delle riunioni.
Piero Sticotti,”L’effige di Guglielmo Oberdan”, 1932
Giuseppe Cantù nel suo studio in Bastioni Magenta, 14 – Milano.
La scultura in alto a destra è probabilmente il “Busto di Guglielmo Oberdan” (patriota irredentista italiano, Trieste 1858-Trieste 1882) opera in gesso, in seguito donata al Circolo Garibaldi di Milano, come citato nello scritto “l’effige di Guglielmo Oberdan” di P. Sticotti, sopra riportato.
GIUSEPPE CANTÙ
Scultore di fama… Con Azzio nel cuore
Che Azzio sia stata meta di molte villeggiature di milanesi, soprattutto nel periodo di fine Ottocento e per tutta la metà del Novecento, lo abbiamo già scritto ( “Notizie su Azzio e il suo convento” V. Arrigoni, G. Pozzi). Tra quei personaggi che amavano trascorrere le loro vacanze ad Azzio, mi piace ricordare lo scultore Giuseppe Cantù (1904 -1916), perché i suoi eredi hanno continuato i rapporti con Azzio grazie a quella casa di villeggiatura, riconoscibile per l’edera che l’avvolge tutta quanta. Curiosamente essendo “Edera” anche il nome della figlia dello scultore Cantù, quella casa per quelli di Azzio e non solo, è – da tanti anni – la “casa dell’Edera”. Giuseppe Cantù dunque, nasce nel 1864 a Casorate Primo, importante borgo agricolo in provincia di Pavia; studia a Milano all’Accademia di Brera dove si perfeziona con lo scultore Medardo Rosso. Fervente repubblicano, lo ritroviamo tra i volontari garibaldini a Domokos nella guerra greco-turca del 1897 (sfortunato episodio dove i volontari, soprattutto repubblicani, erano capitanati dal generale Ricciotti Garibaldi, figlio del ben più noto Giuseppe Garibaldi). Progressista dunque, specie in gioventù, si cimentò con la sua arte soprattutto su temi politici e sociali; prima sua opera significativa una Testa di popolana esposta a Brera nel 1886. Seguirono poi, per le Triennali di Milano, sculture di tema sociale che riscossero apprezzamenti e consensi; fu autore di numerosi busti e stele commemorative ed in questo campo il monumento più noto è senz’altro quello eretto in onore a Giuseppe Verdi, presso la casa natale a Roncole di Busseto, nel centenario della nascita (1913). Si era poi specializzato in piccole opere, statuine e gruppetti, che presentate anche alle mostre di Parigi, Monaco, Pietroburgo ebbero vivo successo ottenendo premi e favorevoli apprezzamenti dalla critica; in effetti il Cantù era assai considerato all’estero e la sua scultura “La questione sociale”, un operaio che arringa i compagni, fu lodata da Emile Zola. Forse il genere cui però più ebbe a dedicarsi fu quello delle medaglie, in particolare delle medaglie sportive, di queste molte sono rimaste giustamente famose. Fra le più note, quella realizzata per Giovanni Raicevich, campione del mondo di lotta del 1909, e quella del 1898 per il “cimento invernale nel Naviglio” (anche il Cantù era tra quei coraggiosi), medaglia a contorni irregolari, reca da una parte la Vittoria, che tende la corona ai nuotatori e intorno l’epigrafe “in balneis salus”; sul rovescio un tritone, appoggiato ad un mostro marino che svolge un drappo sul quale è inciso il nome del partecipante. A Milano il nostro Cantù, esponente di spicco della Scapigliatura, era popolarissimo tanto che di lui si scrisse che “nessuno a Milano trattava col Tu un maggior numero di persone” (Corriere della Sera, 4 settembre 1916, in occasione della morte). Figura caratteristica non solo negli ambienti artistici e meneghini anche perché soleva vestirsi ed atteggiarsi in modo bohémien; in realtà, lo rileviamo da quanto si scrisse in occasione della sua scomparsa, conduceva una “vita ordinata e meticolosa di saggio borghese” profondamente legato ai valori dell’arte, della famiglia, della fratellanza tra gli uomini. Era pure molto noto sulle rive del Lago Maggiore, appassionato cultore del remo e soprattutto del nuoto, si portava sovente sul Verbano in occasione di raduni di sportivi o per organizzarvi gare (ad esempio nell’agosto 1906 è a Germignaga per le gare di nuoto). Lo sport, soggetto di tanti suoi lavori di scultura, fu una delle grandi passioni della sua vita; della sua pratica fu convinto assertore, avendone particolarmente presenti i valori sociali ed educativi; per la sua diffusione tra i giovani e gli operai si dava da fare in prima persona intervenendo anche con aiuti economici ai meritevoli e bisognosi. Fervente cultore di canottaggio, vinse gare prestigiose e fu fondatore della Canottieri Milano. Si dedicò però soprattutto al nuoto, sport di cui fu “campione prima ed apostolo poi”: giustamente la città di Milano gli ha intitolato nel 1978 un centro sportivo con piscina. Tra i fondatori della Federazione Rari Nantes (sarà presidente nazionale dal 1903 al 1912: nel 1928, entrando nel CONI, il nome venne modificato in Federazione Italiana Nuoto – FIN) fu nuotatore espertissimo e stabilì primati in gare su lunghe distanze. I famosi «cimenti invernali», una nuotata nel Naviglio in pieno gennaio con le rive coperte di neve, lo vedevano puntualmente come organizzatore e come partecipante. Probabilmente l’essere nato in un paese prossimo alle rive del Ticino lo ha influenzato nella sua passione per il nuoto e proprio durante una nuotata, e proprio nel Ticino, doveva perire tragicamente il 3 settembre 1916: quel giorno si dovevano svolgere delle gare di nuoto ed il Cantù, che era tra gli organizzatori, stava attraversando il fiume, al ponte di Turbigo, per verificare il percorso. Colto da malore scomparve tra le acque; il corpo venne ritrovato solo alcuni giorni dopo da due barcaioli di Cerano. Ora riposa nella tomba di famiglia ad Azzio accanto ai familiari ed un medaglione da lui realizzato costituisce il suo ricordo funebre.
Gianni Pozzi, “Menta e Rosmarino”, 2009
Azzio (VA), la casa Cantù con l’edera, sullo sfondo la chiesa del Convento. Il rampicante ricopre la casa dal 1960 circa, quindi al tempo del Cantù non c’era. Lo ha voluto la figlia Edera, giocando sul suo nome e su quello del rampicante.
Azzio (VA), la casa Cantù agli inizi del Novecento. La casa fu fatta costruire da Maria, sorella di Cantù, alla fine del 1800.
RARI NANTES: GIUSEPPE CANTÙ
I padri fondatori della nostra federazione, quelli che si autochiamarono “Il Collegio dei Pionieri del nuoto”, furono essenzialmente tre. Il primo era Achille Santoni, il movimentista trentino di cui abbiamo raccontato in un post precedente. Il secondo fu Giuseppe Cantù, anche lui scultore, ma di Milano. Cantù era quello che, sull’idea di Santoni, aveva fatto nascere la Rari Nantes Milano. Il terzo fu il capitano Gianni Vaudano, torinese, che rappresentava la Rari Nantes Torino, appena sorta.
Fondazione
I tre si incontrarono a Como nel 1899, per stabilire come organizzare il campionato delle Rari Nantes che si sarebbe svolto in quella città. L’incontro avvenne probabilmente il 14 Giugno, nella sala bianca del Casinò Sociale. Fu lì che decisero di far nascere una confederazione tra le loro società, la Federazione Italiana Nuoto (ma che prima fu Firn).
Giuseppe Cantù
Giuseppe Cantù non era solo il fondatore della terza Rari Nantes, quella Milanese, era anche il suo principale animatore e un atleta molto attivo. La sua Rari aveva di poco succeduto alla fondazione di quella genovese, la seconda nata. Entrambe erano del 1895. Cantù, invece, era nato nel 1864. All’epoca della fondazione aveva quindi 31 anni, che nel XIX secolo voleva dire essere una persona decisamente matura. Anche lui, come l’amico Santoni, era un entusiasta dei bagni. Meno tassonomico, ma più coriaceo. Di quelli sempre pronti a esagerare. I suoi bagni infantili li aveva fatti nel Ticino, e non nell’Adige, perché era nato a Casorate Primo, un borgo agricolo della provincia di Pavia. Non lontano dal paese passava, infatti, il grande fiume di confine tra il Piemonte e il Lombardo Veneto.
Repubblicano e garibaldino.
Anche Cantù, come Santoni, era un uomo del risorgimento. Rispetto all’amico, però, era un po’ più a sinistra. Era un artista bohemien, di quelli che si vedono sempre conciati in maniera un po’ strana, cappellone e tabarro, ed era un repubblicano, di fede garibaldina. All’epoca, essere repubblicano e garibaldino, voleva dire essere praticamente un sovversivo. A dire il vero il nostro Giuseppe, era un uomo decisamente tranquillo, anche se nel 1897, con Ricciotti Garibaldi, il figlio di Giuseppe e Anita, e insieme ad altri 2000 volontari, aveva partecipato alla sfortunata battaglia di Domokos, in Grecia. Lo scontro fu un episodio della cosiddetta guerra Greco-Turca, quando l’armata greca guidata dal Principe Costantino, quello che l’anno prima aveva presidiato ai Giochi Olimpici, era stata assalita dagli ottomani del generale Edhem Pascià. I garibaldini erano giunti per dargli manforte. Ma le cose non erano andate per niente bene.
Scultore
Cantù, come artista, era membro della Scapigliatura, il movimento che si proponeva originalità ed eccentricità e che cercava nell’adesione al romanticismo straniero, una propria affermazione ribellista. Da vero progressista, nelle sue opere, si espresse principalmente su temi politici e sociali. Famosa fu una sua “testa di popolana” esposta a Brera nel 1886. Un’altra sua scultura “La questione sociale”, un operaio che arringa i compagni, fu lodata nientemeno che da Emile Zola, il famoso scrittore dei “Misteri di Marsiglia” e di Therese Raquin, quello che pronunciò il “Je accuse” nel l’affare Dreyfus. Come molti colleghi della sua epoca fece soprattutto busti. A Roncole di Busseto si trova quello eretto in onore di Giuseppe Verdi, il suo pezzo forte. Lo realizzò nel 1913.
Medaglista
Non mancò di dedicarsi anche a piccole opere e fu un abile creatore di medaglie. Data la sua passione naturalmente le più belle furono quelle dedicate allo sport. La sua medaglia più nota la fece per Giovanni Raicevich, il campione del mondo di lotta del 1909. Un’altra che fece colpo fu quella per il “cimento invernale nel Naviglio” del 1898. Era una medaglia un po’ particolare. Aveva contorni irregolari. Da una parte c’era la Vittoria, che stendeva la corona dei vincitori ai nuotatori. Intorno stava l’epigrafe “in balneis salus”, il motto dei rari nantes. Sul rovescio era raffigurato un tritone, appoggiato ad un mostro marino, che svolgeva un drappo sul quale era inciso il nome del partecipante.
Nuotatore
Come nuotatore era un tipo da traversate e bagni estremi. Esperto di cimenti invernali, sul Lago Maggiore, era conosciutissimo. Era facile vederlo lì, per qualche raduno, per un bagno o per organizzare una gara di nuoto. Spesso faceva la traversata per conto proprio. Una volta la fece anche completamente vestito, partendo da Arona e arrivando ad Angera, per recarsi a pranzo da amici.
Dirigente sportivo
Lo sport fu la sua grande passione. Fu un promotore e un fondatore di società agonistiche d’ogni tipo. Era di quelli che sentiva davvero il valore sociale ed educativo delle discipline atletiche, da vero amateur dell’ 800. Per diffondere le sue idee e far conoscere lo sport tra i giovani e gli operai, si diede parecchio da fare. Se era necessario era anche capace di mettere le mani in tasca, se bisognava sostenere qualcuno che riteneva meritevole o che non poteva permetterselo. Amava anche il canottaggio. Non solo col remo in mano vinse delle gare, ma fu anche fondatore della gloriosa Società Canottieri Milano. Nel nuoto fu un po’ tutto, praticante, “campione, apostolo” animatore e dirigente. Fu uno dei padri fondatori della Federazione Italiana, ma fu anche il suo presidente dal 1903 al 1912, quando la sede fu spostata a Milano.
Epilogo tragico
La cosa strana fu che morì tragicamente proprio durante una nuotata. Accadde, tra l’altro, nel suo amato Ticino. Era il 3 settembre del 1916. Quel giorno si doveva svolgere una gara e Cantù, che era tra gli organizzatori, stava attraversando il fiume, al l’altezza del ponte di Turbigo. Faceva sempre così, perché voleva verificare il percorso di persona. Probabilmente fu un malore a prenderlo. Fatto è che scomparve improvvisamente tra le acque. Lo ritrovarono cadavere, solo dopo alcuni giorni.
Ora riposa nella tomba di famiglia, nel paesino di Azzio, il posto dove spesso andava a villeggiare. É accanto ai familiari e vicino ad un medaglione da lui stesso realizzato.
Molti diranno che la sua sorte è stata sfortunata. Altri, che è stata una vera beffa. Ma io, ricordando il tipo e la sua filosofia, non riesco a non pensare che abbia lasciato la vita con un colpo da maestro, da autentico scapigliato, abbracciato a quell’acqua, come avrebbe fatto Zivago con la sua amata Lárissa.
Paolo Tondina, “Nuoto.com”, 2021
La cerimonia di inaugurazione della piscina “Giuseppe Cantù” a Milano, nel 1978, in presenza della figlia Edera.